Federico García Lorca (Fuente Vaqueros, 5 giugno 1898 – Víznar, 19 agosto 1936), poeta e drammaturgo spagnolo appartenente alla cosiddetta generazione del ’27, un gruppo di scrittori che affrontò le Avanguardie europee con risultati eccellenti, tanto che la prima metà del Novecento viene definita la Edad de Plata della letteratura spagnola.
“Di fronte alla chiesa c’è la casa dove sono nato. E’ grande, pesante, maestosa nella sua vecchiaia… Ha delle inferriate che suonano come campane. Da bambino i miei amichetti ed io le facevamo suonare con una sbarra di ferro; quel suo suono ci faceva impazzire dall’allegria e giocavamo a farle rintoccare a fuoco, a morto e a battesimi… Dentro, la casa è fredda e bassa. Sui suoi balconi le piccole scolare recitavano versi e canti quando passava la Madonna dell’Amore Bello ed io ero re con un bengala in mano.”
Federico García Lorca
SE LE MIE MANI POTESSERO SFOGLIARE
Pronuncio il tuo nome
nelle notte buie,
quando gli astri vanno
a bere alla luna
e dormono gli alberi
delle foreste cupe.
Ed io mi sento vuoto
di passione e musica.
Orologio impazzito che canta
morte ore antiche.
Pronuncio il tuo nome
In questa notte buia,
e il tuo nome suona
più lontano che mai.
Più lontano delle stelle,
più dolente della pioggia quieta.
Ancora ti amerò
Come allora? Quale colpa
ha il mio cuore?
Se si alza nebbia
quale nuova passione m’attende?
Sarà tranquilla e pura?
Potessero le mie mani
sfogliare la luna!
Federico Garcìa Lorca
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A Cesena
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.
Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.
Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,
il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,
bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;
so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolente,
il babbo che ti vuole un po’ di bene…
« Mamma! » tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi…
poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,
quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.
Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;
parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco, del tuo Dino, e dici:
« Vedrai, vedrai se lo terrò di conto »;
parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui
tutta d’un uomo ch’io conosco appena.
tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla… così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:
« La mamma nostra t’avrà detto che…
E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!
Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…
Ho fortuna, è una buona gravidanza…»
Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.
E l’anno scorso eri così bambina!
Marino Moretti (1885-1979)